C'è una terrazza a Roma dove si parla di arte. Avvolta da memorie antiche scritte sulle pietre dei Fori Imperiali, si odono lontano le voci dell'Urbe, voci di popolo, dei suoi visitatori, e della sua musica di strada che la rende italiana.
La terrazza è quadrata e ogni suo lato offre una cornice unica, un paesaggio che rimane negli occhi. Alzando lo sguardo mi perdo nelle cangianti sfumature di colore che dal momento del tramonto si avvicendano velocemente fino all'apparire della luna. Ad essa io consegno i pensieri incondizionati, affinché ne restituisca la quintessenza alla mia città. Sopra di me gabbiani volteggiano inseguendosi, lasciando nell'aria il suono dei loro richiami.
Proprio qui ci riuniamo per parlare di noi, come se la bellezza aulica dei monumenti che ci circondano esortasse ad esprimere la nostra parte migliore. Siamo un cenacolo di artigiani, artisti, letterati, che ricercano nuove frontiere di relazione con il mondo.
Si parla di jazz.
Non a caso questo genere di musica si esprime con sofisticata sembianza e sembra poco diretto ad un ascolto comune. Altresì, afferma un immediato intimo fluire che è esattamente il parallelo che io vivo quando scrivo. In questo senso, c'è una insita attenzione a cavalcare con abbandono l'istantanea composizione, sia in musica che nella scrittura.
Ormai si intravedono nitidamente le stelle. La discesa dalla terrazza è un corridoio che collega il mondo del sogno con quella della realtà confinata.
Mi congedo rendendomi conto di aver percorso in poco tempo degli spazi incredibilmente intensi.
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